Sunday, April 6, 2008

Pianeta New York:

Una settimana lunga un mese




È un freddo lunedì di marzo e New York si è svegliata avvolta da un soffice manto bianco. Seduta, all’interno di un vagone della metropolitana, che da downtown mi porterà nell’Upper East Side, dove lavoro, mi guardo attorno, sorpresa da tanto silenzio e mi ritrovo circondata e riscaldata da una folla calma ed ordinata. Improvvisamente sento il mio sguardo levarsi dal mio corpo per osservare la scena dall’alto. Incredula ma divertita da tale assurdità, vedo me stessa seduta in quel vagone della metro, tra centinaia di persone; ognuno di noi, immobile, impassibile in uno di quei rarissimi momenti di pausa e riflessione che la città ci concede. Divertendomi ad immaginare il prossimo breve futuro di ogni singolo compagno di viaggio, vedo operai avvolti in pesanti giacche a vento, pronti a lavorare all’aperto in mezzo alla neve, nei cantieri di una città che cresce e cambia a vista d’occhio, vedo businessmen elegantemente vestiti in vista di un importante appuntamento di lavoro, designer alla ricerca di nuove idee, banchieri, avvocati, artisti, musicisti, studenti, sognatori, ognuno così impaziente di riprendere la propria corsa competitiva in una NY che tanto palesemente offre quanto tacitamente ruba alla nostra natura umana. Il mio sguardo curioso e scrutatore s’imbatte poi nella mia figura. È così strano vedermi dall’alto. Non riesco a percepire il mio pensiero, ma dalla mia pelle traspira sana trepidazione, e d’improvviso mi sobbalza in mente la mia meta della giornata: il Whitney Museum of American Art, dove lavoro da quasi 3 mesi.

All’improvviso la voce elettronica dell’auto parlante, annunciando la fermata “77th street”, mi desta dai miei pensieri e, ancor prima di rendermene conto, mi ritrovo catapultata sulla 74° strada. Mi faccio spazio tra la folla e corro verso la mia meta. Sento il mio sguardo sollevarsi ancora una volta dal mio corpo, in alto sempre più in alto. Davanti ai miei occhi gli interni dei lussuosi appartamenti di Park Avenue e poi ancora più in alto fino a veder le cime dei grattacieli. Seguo la mia figura cercando di non perderla d’occhio, ma il colore dei miei capelli e i miei abiti perdono chiarezza di dettaglio, e finisco per disperdere la mia sagoma in quella folla disordinata di formichine impazzite all’uscita del formicaio, ognuna con il suo obiettivo quotidiano, ognuna con la sua intricata rete d’appuntamenti, relazioni, orari, impegni. Corrono e si affannano, frenetiche. Sembra davvero che la gente a New York cammini e si muova più velocemente che nel resto del mondo, sembra che addirittura parli, mangi, scriva e pensi più velocemente. Tutto è relativo, il mio buon padre docet, mai come adesso gli do ragione. Tutto è davvero relativo, e NY sembra avere una dimensione temporale a parte. Credo che una settimana newyorchese corrisponda almeno a 3/4 settimane vissute nella nostra frenetica Milano e a circa 2 mesi della più rilassata Palermo. Le 24 ore di una giornata non sono davvero sufficienti per vivere “a velocità universale” tutto ciò che la Grande Mela offre e così si è costretti ad accelerare il ritmo delle proprie azioni a tal punto da dilatare il tempo in cui le si vive e le giornate durano settimane e le settimane durano mesi…

Personalmente, nell’arco di una sola settimana, le poche briciole d’impegni ripetuti quotidianamente (il lavoro al Whitney Museum, quello di babysitter, le lezioni di danza), sono prontamente spazzate via da una quantità sorprendente di mani strette, di nomi, di stimoli, d’occasioni desiderate o assolutamente inaspettate: partecipare all’esclusivissimo vernissage della Biennale d’Arte Contemporanea del Whitney Museum of American Art tra artisti, galleristi, collezionisti, critici d’arte tra i più rispettati al mondo e conoscere il grande artista Jonh Baldessari in persona; ricevere un invito a cena da “Cipriani”, uno dei ristoranti italiani più rinomati della città e, delusioni gastronomiche a parte, aver la fortuna di ritrovarmi davanti Tony Bennett in persona che ad intonar “For once in my life”; assistere alle riprese di un video d’arte all’interno di un modernissimo, quasi fantascientifico, loft di Soho, tra registi, cameraman, make-up artists e ballerini di fama internazionale e poi raggiungere gli amici squattrinati in un economico localino di Brooklyn per assistere al concerto dell’amico musicista messicano, Rana Santarcuz; adempiere ai doveri d’alunna-insegnante in una lezione bilaterale Italiano-Giapponese con l’amica Hiromi e poi acquistare un biglietto per il concerto di Aretha Franklyn; raggiungere degli amici italiani nel ristorantino di loro proprietà nel cuore di Nolita (Nord di Little Italy) e, bevendo un ottimo Sirah, sentirmi a casa e…

“The next stop is Bleecker street”! La voce elettronica della metropolitana mi risveglia ancora una volta dal mio fantasticare e mi riporta sul Pianeta NY. È la mia fermata, sono arrivata a casa. È domenica sera, un’altra settimana lunga più di un mese si è appena conclusa…chissà cosa mi riserverà la prossima…del resto come diceva qualcuno “Domani è un altro giorno e si vedrà…”

1 comment:

Anonymous said...

Che bello poterti tornare a leggere. Immaginavo scrivessi qualcosa su Cuba, ma forse è stato meglio così.. scrivi così bene che mi hai fatto venire voglia di venire su a trovarti, anzi, scrivi così bene che mi hai dato l'impressione di essere stato li in metro con te per 5 minuti mentre leggevo. ;-)

Um abraço, davUde