Friday, October 15, 2010

Close-Up. Abbas Kiarostami.


Se cercate un film che riassuma in 94’ buona parte del gusto cinematografico iraniano, lasciandovi tempo per riflettere sul concetto di arte e di popolarità, di verità e di finzione cinematografica, allora non perdete Close-Up (Nema-ye nazdik,1990) di Abbas Kiarostami, probabilmente uno dei più riusciti esempi di realismo cinematografico persiano. Close-Up, letteralmente primo piano, mette a fuoco, massimizzandone alcuni dettagli poetici, un singolare evento di cronaca che aveva particolarmente colpito il regista.
Il povero disoccupato Hossain Sabzian, appassionato di cinema e grande estimatore del regista Mohsen Makhmalbaf, sfruttando alcune fortuite coincidenze e la sua indubbia somiglianza allo stesso regista, viene accusato di frode e truffa per aver finto di essere Makhmalbaf in persona e aver convinto la famiglia Ahankah ad offrirgli cibo, denaro, e ospitalità in casa propria, dove avrebbe poi voluto girare il suo presunto prossimo film.
Sulla scena non ci sono attori. Il truffatore Sabzian, il regista Makhmalbaf e lo stesso Kiarostami sono protagonisti della cronaca così come della scena. La finzione cinematografica e la realtà della vita si fondono e si mischiano all’infinito, fino a confondere la loro stessa identità all’interno della classica struttura ciclica del cinema iraniano, riproposta qui da Kiarostami come i pezzetti di una matrioska russa.
La prima e l’ultima scena, collegate dal tema della ripresa in automobile, aprono e chiudono quello che sembra, a tutti gli effetti, un documentario giornalistico. Ma se inizialmente la chiave della narrazione è proprio la figura del reporter Hassan Farazmand (verosimile alter-ego di Kiarostami nella prima parte del film) che dopo esser venuto a conoscenza del fatto, si appresta a raggiungere casa Ahankah per effettuare lo scoop della sua vita, nella seconda parte è lo stesso regista Kiarostami a entrare in scena, all’interno dell’aula del tribunale dove viene effettuato il processo, con la propria telecamera. E per cucire eventuali buchi narrativi prende pure la parola, interrogando direttamente l’imputato/protagonista, in un duplice close-up, sia verbale che visivo.

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