Thursday, March 3, 2011

Petrella torna con Tubolibre/Slaves

«Brani delle cover blues degli anni '30»



Gianluca Petrella, parliamo anzitutto dell’uscita del suo prossimo disco…
«È un progetto al quale tengo molto, si chiama Tubolibre/Slaves ed è prodotto dalla Spacebone, la casa discografica che ho voluto creare nel 2009; ne prevediamo l’uscita per fine Novembre. Tubolibre, in particolare, è il quartetto che ho formato nel 2008 insieme a tre musicisti straordinari: Gabrio Baldacci alla chitarra elettrica, Cristiano Calcagnile alla batteria e Mauro Ottolini al susafono (variante più leggera e trasportabile del basso tuba, spesso utilizzato per le bande). Io suonerò invece il Fender Rhodes, oltre al trombone ovviamente».
Che genere di musica ascolteremo in Tubolibre/Slaves?
«Cover di Blues degli anni '30, improvvisazioni, e alcuni brani inediti. Nonostante Tubolibre evochi probabilmente allegria e leggerezza, in realtà si tratta di un disco molto profondo e malinconico; una dura riflessione su ciò che di assurdo sta succedendo nella nostra società. Il titolo stesso, Slaves (schiavi), vuole raccontare tutti i tipi di schiavismo che attanagliano la nostra quotidianità: la schiavitù tecnologica, la schiavitù del denaro, quella del potere».
Un nuovo Petrella.
«Più che nuovo, direi che mi sentirete in una nuova veste. Non incido tantissimi dischi, ne faccio uno per anno e ogni nuovo disco rappresenta in un certo senso una nuova parte di me. Mi piace mettermi in discussione, giocare con sempre nuovi linguaggi. Ogni esperienza, ogni viaggio, ogni incontro, ogni pensiero influenzano ciò che creo, volta dopo volta. Sarebbe impossibile creare sempre la stessa musica».
Sebbene abbia solo 35 anni, suona il trombone da più 25 anni ormai. Più che uno strumento ormai una specie di terzo braccio. Come mai proprio il trombone?
«In effetti, non si tratta di semplice casualità. Il trombone me lo sono trovato in casa; mio padre è trombonista anche lui. Sarebbe difficile per un bambino di 10 anni scegliere uno strumento del genere. Io ho cominciato a suonare il trombone nell’85 accompagnando matrimoni e cerimonie funebri con la banda del paese. E di certo il fatto di suonare marce funebri ha influenzato moltissimo la mia formazione musicale. Poi mi sono lasciato travolgere invece dall’Happy jazz, suonando in piccole orchestre da ballo. A 20 anni, poi, ho lasciato Bari per Francoforte sul Meno e a 21 sono tornato in Italia dove ho cominciato a collaborare con Enrico Rava».
Basta guardarvi insieme in un concerto per poter cogliere il vostro grande affiatamento
«Suoniamo insieme da 15 anni, ormai ci conosciamo davvero benissimo. Tromba e trombone diventano uno strumento solo quando suoniamo insieme. Lui è stato un grandissimo maestro per me. Mi ha aperto molte porte, sia da un punto di vista culturale, che professionale. Sono cresciuto con lui, mi ha portato in tournee in giro per il mondo. Devo tantissimo a Enrico Rava; è un onore per me continuare a lavorare insieme».
Nei primi anni della sua formazione, invece, chi è stato il suo più grande riferimento musicale?
«Quando ho cominciato a suonare, studiando in conservatorio, i miei miti erano un po’ i miti di tutti. Posso dire di essere cresciuto a pane e J. J. Johnson, grandissimo trombonista. E poi ovviamente Ornett Coleman, Archie Shepp, Heret Dolphin. Negli ultimi 5/10 anni invece ho cominciato a trovare ispirazione in qualsiasi genere musicale, dal grande Giacinto Scelsi al rapper Snoop Dogg, e poi nella musica elettronica, nell’heavy metal. Direi in tutti i suoni in generale. Ma non parlatemi del Pop italiano. Quello no. Non sopporto quei personaggi che magari non capiscono un granché di musica e si divertono a gonfiare alcuni nomi, spacciandoli per i geni del terzo millennio».
Una polpetta difficile da digerire per uno come lei che ha studiato profondamente la musica
«Non ne faccio una questione di studio o di conoscenze; non è un problema di competenze musicali. Per me tutto è musica. Dalla musica d’orchestra a quella suonata dentro un garage. La musica è un bene comune. Quello che non sopporto è la presunzione di chi finge di capirne, speculando poi su alcuni artistelli. Non faccio nomi».
E la Computer Music invece?
«Una rovina. Sebbene io lavori spessissimo con il computer e mi piaccia molto l’elettronica, non riesco a considerare musica l’atto di comprare un computer, montarlo in cucina tra frigorifero e lavastoviglie, scaricare dei pezzi sonori e montarli insieme».
Su Youtube c’è un video in cui suona sommerso dall’acqua di una piscina. Le piacciono questo tipo di sperimentazioni?
«Ti riferisci al Festival Time In Jazz 2009. Quell’anno il tema del Festival era proprio l’acqua. E così, con Paolo Fresu, abbiamo pensato di giocare con l’acqua in maniera più fisica che teorica. E mi sono immerso in piscina; è stato divertente. Altre sperimentazioni… ho suonato a 2400 metri di altitudine, in montagna. E poi al buio, sotto la pioggia, per strada… Ogni volta è una nuova sensazione».
Guardandola suonare, sembra vada quasi in un’altra dimensione. Cosa c’è dentro la sua testa in quei momenti?
«In realtà quelli sono momenti di altissima concentrazione. Pensi alla musica, pensi ai suoni, pensi alle note che stai per comporre. Se vuoi creare ogni volta qualcosa di nuovo, qualcosa di inedito, come pretendo di fare io, devi liberare la mente da tutto il resto».

Pubblicato sul corriere.it

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