Friday, February 5, 2010

Chiacchierando con Luigi Lo Cascio


Luglio 2009. Palermo. Appuntamento al bar del Giardino Inglese, alle 17:00.
Mancano ancora 15 minuti all’incontro con Luigi Lo Cascio e lui, puntualissimo, passeggia già per i viali alberati del giardino. Elegante, schivo, nerissimo. Mi avvicino al bar delle granite, e un gruppetto di bambini sedotti dallo zucchero filato mi distrae nell’attesa. Il grande orologio del bar, il mio e quello di Luigi Lo Cascio segnano ora le 17:00. Eccolo lì, educato e sorridente, sebbene poco incline ai convenevoli. Cerchiamo una panchina silenziosa. Accendo il mio registratore.
Ti conosciamo attraverso le parole di giornalisti, le voci di fans, i personaggi interpretati, ma chi è veramente Luigi Lo Cascio?
In realtà credo che la cosa più bella per me sia proprio fare un mestiere nel quale la mia stessa persona sia totalmente fuori gioco. Un attore dovrebbe comparire sulla scena come personaggio e poi scomparire subito dopo. La conoscenza della sua personalità può solo creare intralcio all’interpretazione professionale, portando lo spettatore a un inevitabile e continuo confronto tra la persona-attore e il personaggio interpretato.
Credo che il mito e il fascino degli attori del passato fosse proprio la scarsa conoscenza delle loro vite private, delle loro persone, quell’incognita sulla loro vita. Fosse per me mi piacerebbe lasciare una sorta di pudore nella mia vita, e non perchè la mia persona sia preziosa, ma perché anzi minuscola rispetto a quei personaggi che possono interessare altri. Non ho una vita così avventurosa, interessante da essere conosciuta da altri, altrimenti si farebbe un film su di me.
E se dovessi definirti in tre parole?
Non credo ci sia frase o espressione che possa veramente definirci ed esaurirci. Siamo tutti qualcosa ma anche l’esatto contrario. Al limite potrebbe esserci una interpretazione soggettiva, ma nulla di così nitido da poter essere detto. Se mi definissi in un modo, dovrei mettere più e meno davanti, con infinite sfumature e variabili.

Parlando di ricerca artistica, tu hai cominciato con lo studio in medicina, poi la scoperta del teatro e infine il cinema. Cosa sognavi da bambino? Avresti mai pensato di vivere tutto questo?
Da bambino non ho mai pensato a me da grande. Pensavo a che gioco avrei fatto dopo cinque minuti. In realtà, anche in età più matura non pensavo al mio futuro e, nonostante fossi bravo a scuola, per me era un continuo giocare; appartenevo a un gruppo molto goliardico. Poi alla vigilia della maturità ho pensato che avrei potuto diventare psichiatra; la carriera del medico mi attraeva molto e poi venendo da una famiglia di medici, mi iscrissi in medicina. Ma nel tempo libero, insieme a un gruppo di amici, inscenavamo un jukebox ambulante per le strade di Palermo. Era una sorta di teatro di strada, ci divertivamo moltissimo. Chiedere i soldi ai semafori era poi una vera trasgressione, vivevamo con il timore di incontrare uno zio (Luigi Lo Cascio è nipote dell’attore Luigi Maria Burruano), un familiare, un professore. Sarebbe stato un vero scandalo in famiglia. Dai semafori siamo poi passati alle piazze. La gente si divertiva e così abbiamo cominciato a fare spettacolini in alcuni locali di cabaret come il Convento e il Bradamante, in piccoli teatri a Palermo e poi al San Carluccio di Napoli. E in uno di questi spettacoli mi vide il regista palermitano Umberto Cantone e mi disse che secondo lui io avrei potuto fare anche prosa, perché il timbro e il tono della mia voce si prestavano anche al ruolo di attore, non solo di cabarettista, di teatrante di strada.
Così ho fatto un provino con Federico Tiezzi che stava dirigendo a Palermo lo spettacolo Aspettando Godot. Mi prese. Mi destinarono una parte piccolissima nello spettacolo in tournee per l’Italia. Ho conosciuto teatri bellissimi come il Quirino di Roma, il Carignano di Torino, lo Stabile di Brescia. Fu lì che mi innamorai di quel mestiere.
Cosa ti colpì del mestiere di attore?
La sua realtà più concreta. Quel lavoro di costruzione del personaggio, quello stare a tavolino, seduti, attori e regista, come fossero carbonai. Si può stare settimane pensando a come dire una battuta. Nella vita siamo abituati ad esprimerci, senza pensare. Nel teatro invece c’è tutto un lavoro artigianale, nel quale la battuta viene trattata con la sua intonazione, come fosse una frase musicale, come se fosse messa su un pentagramma. E poi mi affascinava tutta la preparazione prima di entrare in scena: quell’andare in teatro mezz’ora prima dello spettacolo; i camerini, quei piccoli appartamenti spartani che ricordano le celle dei monaci; il silenzio; quel ripetere la parte come fosse un mantra. Ci si veste e si guarda il palcoscenico, il legno, le quinte, la graticcia e poi anche l’emozione dell’andare in scena.
Quando capii che mi piaceva questo mestiere, avevo ormai 22 anni, ero al secondo anno di medicina. Così ho pensato che, se mi avessero preso in Accademia a Roma, avrei lasciato l’università, altrimenti avrei continuato a studiare medicina, inscenando spettacolini nel tempo libero.

Un po’ fatalista…
Più che altro, capii che non avrei potuto far l’attore senza una vera scuola. Era un momento cruciale. Se non fossi stato preso in Accademia avrei dovuto aspettare un anno, sarei diventato più grande. Il limite di età era 23 anni.
Insomma attori non si nasce…
Il mestiere dell’attore è il risultato di un apprendistato molto faticoso, molto complesso.
Spesso quando si comincia si ha la sensazione che basti avere un sentimento e metterlo in scena per garantire che quella cosa sia da guardare. In verità quella del personaggio in scena è una forma da plasmare, con uno scalpello, qualcosa da costruire, con un duro lavoro artigianale. E poi fare film non esaurisce il mestiere del recitare. Si può fare teatro, la radio, il doppiaggio, i laboratori nelle scuole, o può continuare a studiare, a sperimentare. E’ un mestiere molto articolato, complesso.
Ti emoziona più il cinema o il teatro?
Sono due tecniche molto diverse; non si possono paragonare. Sono come due sport così differenti da poter essere entrambi passioni.
Il teatro per me è come fare una maratona. Soprattutto quando faccio i monologhi, è un vero sfinimento fisico. Entrare in scena e stare sul palcoscenico per un’ora e mezza, da solo, richiede un’altissima concentrazione.
Il cinema, invece, è un po’ come la gara di velocità del centometrista. Prima c’è tutta la lunga preparazione: stai tutta la giornata ad aspettare, le luci, i fuochi, il trucco e poi devi fare la scena in 18/30 secondi. Tu che ti volti e piangi. Stop. Una roba da funamboli, un’acrobazia.
In questo momento probabilmente per me il teatro rappresenta un’esperienza più complessa del cinema, molteplice, perché ho da qualche tempo ho cominciato a scrivere e dirigere pezzi miei. Non è più soltanto una prestazione da attore.

Hai mai pensato di lavorare all’estero?
Non so parlare nessuna lingua. Credo che per me il ruolo dell’attore sia molto legato al linguaggio; poi certo c’è anche la figura, il fisico, lo sguardo. Ma per me vale soprattutto la lingua, la parola. Quindi dovrei non soltanto imparare la lingua, ma conoscerla talmente bene da poter fare lo stesso che faccio con l’italiano. Certo, se dovessi fare dei lavori occasionali, andrei con piacere, ma sempre recitando in italiano.
Raccontami qualcosa sul film che stai girando attualmente.
Si chiama Noi credevamo con la regia di Mario Martone. E’ tratto da un romanzo di Anna Banti ma, nonostante ci sia una forte componente romanzesca, si raccontano fatti reali, cronache storiche. Anna Banti, in particolare, si riferisce a suo nonno, Domenico, che è poi il mio personaggio.
Domenico è un cospiratore del Cilento, una regione bellissima dell’Italia nel sud. Lì sono ambientate la parte iniziale e quella finale del film.
Il film racconta le avventure di tre amici (Domenico…,…) che sognano la Giovane Italia e che hanno a cuore l’Unità d’Italia. Si vedono anche personaggi storici importanti come Giuseppe Mazzini e Francesco Crispi, che però non sono i protagonisti. Protagonista è invece tutta quella gente comune a cui si devono le sorti dell’Italia, tutte quelle persone che hanno agito contro i propri interessi; quei benestanti che, pur di accarezzare l’idea dell’Italia unita, andavano contro il potere, che era invece dalla loro parte ed erano poi costretti a lasciare tutto e magari a vivere in una situazione di esilio.
Noi credevamo è un film relativamente lungo, racconta una storia che va dai primi dell’800 fino a oltre il 1860, vediamo come incide sui singoli personaggi il passare del tempo, li vediamo invecchiare. Credo sia un film molto interessante. Stiamo finendo di girarlo, uscirà al cinema nel 2010.
Non avevi mai lavorato con Mario Martone?
No, ci eravamo già incontrati in occasione di alcuni miei spettacoli teatrali ma questa è la nostra prima collaborazione. Lui è direttore dello stabile di Torino e nasce come regista di teatro a Napoli con Morte di un matematico napoletano. Da allora ha alternato teatro e cinema, cosa eccezionale per un regista. Per un attore è più semplice passare dal cinema al teatro, basta adattarsi a tecniche differenti. Per il regista è molto più difficoltoso, credo sia anche per una questione di tempi. Per un film devi avere l’idea, cominciare a scrivere la sceneggiatura, le varie stesure, poi devi trovare i finanziamenti, il luogo in cui girarlo, devi fare i casting, le riprese, il montaggio, la colonna sonora, poi devi andare in giro a presentarlo, i festival; ci vogliono almeno un paio d’anni.
Uno spettacolo teatrale invece ti prende circa un mese di tempo.
Parlando di film storici, se potessi rinascere in un periodo del passato, dove ti troveresti?
Mi piacerebbe risvegliarmi una mattina ad Atene, qualche secolo prima della nascita di Cristo. Sapere che da lì a poco andrò a vedere l’Edipo Re di Sofocle, che nessuno ha mai visto prima. Se ne parla perchè magari qualcuno ha sbirciato un po’ le prove, ma chissà come sarà affrontato il mito. Sarebbe un’esperienza unica. Potrei tornare da questo viaggio e raccontare in che cosa consistesse esattamente la tragedia. Della tragedia noi conosciamo soltanto quello che ci è arrivato tramite i testi, anche se delle centinaia o migliaia di tragedie scritte, ce ne sono arrivate pochissime. Ma non sappiamo come fosse la musica, come danzavano.
Riprendendo Nitche “Il nostro melodramma nasce come tentativo di risposta a come poteva essere la tragedia, dove il rapporto tra musica e la parola era fortissimo!” Scoprirei l’importanza del coro e della danza, questi giganti mascherati che entravano in scena. E poi potrei vedere come era Atene, com’era il pubblico, la loro capacità di concentrazione. Noi oggi siamo abituati a un tipo di spettacolo dove è molto importante il silenzio, il buio. Ad Atene, invece, si assisteva agli spettacoli alla luce del sole, magari bevendo. E si assisteva a ben quattro spettacoli di seguito: tre tragedie e un dramma satiresco. Oggi non siamo più capaci di concentrarci così a lungo.
Andresti come spettatore quindi, non come attore?
No, no, per carità. Assolutamente in veste di spettatore. Altrimenti si realizzerebbe quello che mi capita spesso di sognare: trovarmi in scena e non ricordare la parte a memoria. E per di più trovarmi in Grecia, in mezzo ai greci e dover recitare in greco. Che incubo!

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