Thursday, March 3, 2011

Aldo Filiberto, «obiettivo» siculo a Hollywood

Fotografo e regista, studia alla New York Film Academy



PALERMO - Vivere, a Los Angeles, sulla Hollywood Walk of Fame, la passeggiata delle celebrità. Raggiungere gli Universal Studios, per seguire lezioni di John Carpenter (regista di La cosa, Halloween, 1997: Fuga da New York), di Ron Howard (Apollo 13, A Beautiful Mind, Il Codice da Vinci) o di Buck Henry (sceneggiatore de Il Laureato). Passeggiare, all’interno dei sound stage hollywoodiani - hangar dentro i quali vengono costruiti i set - attraverso strade e quartieri di New York o Parigi fedelmente riprodotti. Fermarsi sul portico di un tipico saloon, in un set western, e respirare a pieni polmoni alcuni dei più importanti capitoli della storia del cinema. Sembrerebbe una di quelle vite da magazine e tv, una di quelle storie capaci di ricordarci la magnitudine di terra e mare che ci separa dalla California. Eppure questa è la quotidianità di Aldo Filiberto, giovanissimo fotografo e regista palermitano in giro per il mondo da quasi 10 anni. Dopo aver studiato fotografia nel Regno Unito e aver ritratto volti e paesaggi di tutt’Europa, nel 2001, grazie a una borsa di studio, è approdato negli States per un master in Film-making alla New York Film Academy di Los Angeles. E, mentre il suo ultimo cortometraggio, Redention, partecipa a festival di cinema indipendente di Usa ed Europa, The interviewer, il suo primissimo lungometraggio, è adesso in fase di pre-produzione.



Prima la fotografia, adesso il cinema. Scelta o pura casualità?
«La passione per la fotografia è nata dall’incontro inaspettato con un libro del fotogiornalista francese Henri Cartier-Bresson. Dopo aver letto il suo concetto “zen” della fotografia, come caccia al momento perfetto, ed essermi innamorato della poesia dei suoi scatti, ho preso la vecchia Olympus di mio padre e scattato le mie prime foto. Da allora non ho più smesso. Il passaggio al cinema, invece, credo rappresenti la perfetta sublimazione del mio amore per la fotografia. Cinema e fotografia parlano un linguaggio comune. Entrambe hanno il potere di trasformare la soggettività di una sola persona in un’emozione talmente forte e concreta da diventare oggettivamente condivisa. La fotografia lo fa attraverso l’uso delle immagini. Il cinema utilizza anche suono, musica e movimento, amplificandone il risultato in maniera eccezionale».



Cosa manca in Italia per vivere un’esperienza come quella che stai vivendo in California?«Credo che al cinema italiano manchi quell’elemento che rende il cinema americano vivo e sempre in evoluzione, che è la produzione indipendente. In Italia, la maggior parte dei film si basa su finanziamenti statali. Si tratta di produzioni a parecchi zeri con accordi di distribuzione già in piedi ancor prima che il film stesso sia stato girato. In questo modo, il numero di produzioni rimane inevitabilmente basso. Negli Stati Uniti, invece, il panorama del cinema auto-finanziato è molto interessante e sono tantissime le produzioni che nascono, vivono e fioriscono al di fuori del sistema degli Studios. Ci sono produttori che lavorano soltanto con film indipendenti, interi mercati di distribuzione per film indipendenti e sale cinematografiche che proiettano solo produzioni indipendenti. Tutto ciò permette a giovani film-maker senza grossi capitali di affacciarsi a un mercato cinematografico ugualmente vivo. Ed è proprio da questo bacino artistico che il cinema delle grosse case di produzione americane trae spesso idee o talenti. In Italia tutto questo non esiste.



Date queste premesse, è difficile immaginare un tuo rientro a Palermo… «Amo Palermo con tutti i suoi pregi e difetti e ne porto sempre un po’ con me, ma per il momento ho ancora bisogno di scoprire il mondo. C’è però un progetto che sto provando a realizzare insieme a un amico produttore e alcuni soci. Si tratta di un film ambientato Palermo: una produzione americana con cast e crew rigorosamente siciliani. Vediamo cosa succede...».

Pubblicato su corriere.it

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